A che punto è il dialogo ebraico-cristiano? Quali sono le prospettive per il futuro? Sono queste le domande, quanto mai urgenti, a cui ha cercato di rispondere la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, in un Documento del 10 dicembre 2015, dal titolo: “ ‘Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili’ (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di Nostra aetate (n. 4)”. Il Documento parte da una panoramica di quanto è stato realizzato a partire dalla Dichiarazione NA 4, che ha realizzato una svolta riguardo al rapporto, certamente asimmetrico, tra la Chiesa e l’Ebraismo. Infatti “esistevano grandi riserve da entrambe le parti, anche perché la storia del cristianesimo è stata vista come segnata da discriminazioni nei confronti dell’ebraismo e persino da tentativi di conversione coatta […]” (n. 1). La Dichiarazione conciliare ha messo in atto un processo che ha portato gradualmente gli ebrei e i cristiani a diventare buoni amici. La Commissione richiama tutti i Documenti del Vaticano che hanno sottolineato aspetti particolari del dialogo ebraico-cristiano, ma ha evidenziato anche l’importanza degli incontri personali e dei dialoghi amicali dei vari pontefici, particolarmente di San Giovanni Paolo II. Numerosi e significativi sono stati i passi in avanti realizzati in questi cinquant’anni; non sono però mancati i conflitti, ma nonostante ciò “sono stati compiuti intensi sforzi per affrontare, in modo aperto e positivo, le divergenze di opinione ed i conflitti che si sono di volta in volta presentati, così che le mutue relazioni hanno potuto rafforzarsi” (n. 10). Un contributo notevole proviene dal dialogo con il Rabbinato mondiale che risale alla breve visita in Israele, nel marzo del 2000, di Giovanni Paolo II, durante la quale incontrò a Gerusalemme i due Rabbini Capo, anche se la prima conversazione ufficiale ci fu nel giugno di due anni dopo, sempre a Gerusalemme. A partire da allora, i temi affrontati sono stati “la santità della vita, la condizione della famiglia, il significato delle Sacre Scritture per la vita nella società, la libertà religiosa, i principi etici dell’agire umano, la sfida ecologica, il rapporto tra autorità secolare ed autorità religiosa ed i requisiti essenziali di una leadership religiosa nella società secolare” (n. 11). La Chiesa porta avanti il dialogo con tutti i gruppi e le organizzazioni ebraiche che desiderano avere relazioni con la Santa Sede, nella consapevolezza di affondare le sue radici nell’Ebraismo, di essere in continuità con Israele. In base a ciò gli ebrei sono definiti nel Documento i nostri fratelli maggiori, come affermò San Giovanni Paolo II, oppure i nostri padri nella fede, secondo l’affermazione di Benedetto XVI. La Commissione sottolinea anche l’ebraicità di Gesù, che è vissuto in ambiente ebraico, e anche dei primi discepoli: “Non si può comprendere l’insegnamento di Gesù e dei suoi discepoli se non lo si situa all’interno dell’orizzonte ebraico e nel contesto della tradizione vivente di Israele; ancora meno lo si può capire se lo si percepisce come contrapposto a tale tradizione. In Gesù, non pochi ebrei del suo tempo hanno visto l’arrivo di un nuovo Mosè, il Cristo promesso (il Messia)” (n. 14). Per la fede cristiana, tuttavia, Gesù è anche in discontinuità con Israele, in quanto Figlio di Dio che “trascende il tempo, la storia e ogni realtà terrena. La comunità di coloro che credono in lui confessa la sua divinità (cfr. Fil 2,6-11)” (n. 14). Per la fede cristiana Gesù realizza il compimento delle attese d’Israele e le trascende in modo escatologico. La differenza, che non può essere minimizzata, è il diverso modo di vedere la figura di Gesù, in quanto per gli ebrei Gesù è un Maestro che ha annunciato il Regno di Dio, ma non viene con lui quale rappresentante di Dio. La sua rivendicazione di un’autorità divina è inconcepibile per il monoteismo ebraico. Nonostante ciò il cristianesimo, per la sua autocomprensione, ha bisogno di conoscere l’ebraismo, sia quello contemporaneo a Gesù, sia quello sviluppatosi nel corso della storia. Tra ebraismo e cristianesimo c’è sempre stata una reciproca influenza, per cui “solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano può essere definito dialogo interreligioso in senso stretto; si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di ‘dialogo intra-religioso o intra-familiare sui generis” (n. 20). Ebraismo e cristianesimo – si sottolinea nel Documento – hanno la stessa origine; gli ebrei e i cristiani possono essere considerati come due fratelli che hanno preso strade diverse. I primi cristiani, infatti, continuavano a seguire le prescrizioni ebraiche, pur confessando Gesù come il Messia (erano giudeo-cristiani). Anche se con Paolo il cristianesimo si è aperto a nuovi orizzonti, nei “primi tempi della Chiesa, vi erano dunque i cosiddetti giudeo-cristiani ed i cristiani gentili, la ‘ecclesia ex circumcisione’ e la ‘ecclesia ex gentibus’, una Chiesa di origine giudaica, l’altra di origine pagana, ma che, insieme, costituivano l’una ed unica Chiesa di Gesù Cristo” (n. 15). Probabilmente la separazione fra la Chiesa e la Sinagoga si è realizzata gradualmente solo dopo il III o il IV secolo d.C. Progressivamente ci si è allontanati sempre più, fino ad arrivare alla reciproca diffamazione, e i Padri della Chiesa hanno elaborato la teoria della sostituzione, secondo cui il popolo di Dio sarebbe stato sostituito dalla Chiesa che costituisce il vero Israele, e tale teoria ha influenzato molto il pensiero cristiano. Solo con il Concilio Vaticano II, con NA 4, le cose sono cominciate a cambiare, poiché la Chiesa ha riconosciuto le radici ebraiche del Cristianesimo, ed è stata delegittimata la teologia della sostituzione. La Nostra aetate ha affrontato il rapporto della Chiesa con le varie religioni mondiali, ma ha messo in risalto che il rapporto con l’ebraismo è particolare. Per gli ebrei la relazione con Dio si attua per mezzo della Torah e per i cristiani per mezzo del Signore Gesù, Parola di Dio fatta carne, ma entrambe “le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah” (n. 24). L’alleanza che Dio ha offerto a Israele è irrevocabile (cf Rm 9,4; 11,1-2); la Nuova Alleanza ha come fondamento l’Antica e non la sostituisce, perché la presuppone, e conferisce ad essa una dimensione più universalistica (cf Zc 8,20-23; Sal 87), che era già insita nel patto con Abramo (cf Gn 1,1-3). Già dalle Scritture Ebraiche – si sottolinea nel Documento del 2015 – emerge che ci sono state varie alleanze, e l’Ebraismo ha avuto un’ulteriore evoluzione dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C.; i rabbini hanno sviluppato una nuova esegesi delle Scritture (cf n. 30). Si sono quindi delineate due letture delle Scritture: quella cristologica cristiana e quella rabbinica post-biblica che ha avuto uno sviluppo storico (cf n. 31). La Chiesa confessa l’unicità della mediazione salvifica universale del Cristo (cf At 4,12), ma questo non significa che gli ebrei siano esclusi dalla salvezza, perché per volere di Dio la salvezza viene dagli ebrei (cf Gv 4,22). “Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile. Non è dunque un caso che le riflessioni soteriologiche di Paolo in Romani 9-11 circa la salvezza definitiva degli ebrei sullo sfondo del mistero di Cristo culminino in una magnifica dossologia: ‘O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!’ (Rm 11,33)” (n. 34). La Chiesa quindi non deve compiere alcuna missione istituzionale nei confronti degli ebrei (cf n. 40). Con umiltà e grande sensibilità verso i fratelli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Cristo, tenendo presente il “principio che Gesù trasmette ai suoi discepoli quando li invia in missione è subire la violenza piuttosto che infliggerla. I cristiani devono riporre la loro fiducia in Dio, che compirà il suo piano universale di salvezza in modi noti soltanto a lui; essi sono infatti testimoni di Cristo, ma non sono loro a dover attuare la salvezza dell’umanità” (n. 42). Secondo il piano salvifico di Cristo, coloro che non ancora hanno ricevuto il Vangelo sono posti sullo stesso piano del popolo di Dio della Nuova Alleanza, e lo è particolarmente il popolo destinatario dell’alleanza con Dio e delle sue promesse, dal quale proviene Cristo secondo la carne (cf Rm 9,4-5), “popolo molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cf. Rm 11,28-29) (“Lumen gentium“, n. 16)” (citazione al n. 43). Nell’ultima parte del Documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, vengono delineati degli obiettivi del dialogo con l’ebraismo. Il primo obiettivo è quello dall’approfondimento della mutua conoscenza tra ebrei e cristiani, che è fonte di un reciproco arricchimento. Il ricco patrimonio dell’ebraismo va scoperto un po’ alla volta attraverso il dialogo, gli studi biblici e teologici (cf NA 4), poiché “i cristiani possono imparare molto dall’esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell’esegesi cristiana” (n. 44). E’ già in atto una fruttuosa collaborazione nel campo dell’esegesi tra studiosi ebraici e cristiani, che contribuisce ad un arricchimento reciproco. Tali conoscenze non devono però restare appannaggio solo degli specialisti, ma devono essere divulgate, promuovendo anche la formazione alla teologia del dialogo ebraico-cristiano dei futuri sacerdoti. Un altro “importante obiettivo del dialogo ebraico-cristiano consiste indubbiamente nell’impegno comune a favore della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato e della riconciliazione in tutto il mondo” (n. 46). In passato le religioni, a causa di una restrittiva rivendicazione della verità, erano causa di conflitti e intolleranza. Oggi le religioni, attraverso il dialogo, possono contribuire alla pace mondiale, anche a livello sociale e politico. E’ necessario però che le autorità civili garantiscano la libertà religiosa e i diritti delle minoranze religiose. “Nel dialogo ebraico-cristiano, di grande rilevanza è la situazione delle comunità cristiane nello Stato di Israele, poiché là – come in nessun altro luogo al mondo – una minoranza cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La pace in Terra Santa – una pace che manca e per la quale si prega costantemente – svolge un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e cristiani” (n. 46). Un altro importante obiettivo è quello di combattere l’antisemitismo, che non ancora è stato sradicato e spesso riaffiora in vari contesti e modi diversi. L’antisemitismo latente (implicito) – si sottolinea nel Documento – porta poi a grandi tragedie, come è successo con la Shoah, per cui occorre vigilanza e sensibilità: “Per lo stretto legame di amicizia che unisce ebrei e cattolici, la Chiesa cattolica si sente particolarmente in dovere di fare quanto è in suo potere, insieme ai nostri amici ebrei, per respingere le tendenze antisemite” (n. 47). Un altro obiettivo è quello dell’impegno umanitario-sociale per migliorare il mondo, e tale condivisione tra ebrei e cristiani è già in atto (come nel 2004 in Argentina), anche se va sempre più incrementata (cf n. 48).
Il Documento del 2015 offre non solo stimolanti spunti di riflessione e di approfondimento per il dialogo ebraico-cristiano, ma si apre anche alla prospettiva etica, operativa, perché il dialogo va concretizzato nel servizio per tutta l’umanità sofferente, per la fedeltà alla misericordia di Dio, che si è manifestata con il popolo d’Israele e con Gesù il Cristo, figlio d’Israele e Figlio di Dio.
Lucia Antinucci
presidente AEC-NA